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Contatto e attaccamento (parte 2)

Oggi vi voglio parlare di John Bowlby e delle teorie dell’attaccamento, uno di quei settori della ricerca scientifica nell’ambito della psicologia che furono attaccate e criticate quando uscirono e che successivamente vennero riconosciute come baluardi del sapere, e mai più messi in discussione. Attualmente vengono date del tutto per accreditate, con tanto di congressi in giro per il mondo.

La teoria che Bowlby ha sviluppato già negli anni ’40, e poi ripreso per tutto il corso della sua carriera, parte da un presupposto tanto semplice quanto rivoluzionario, per i suoi tempi. Vi ricordate il discorso delle foche e dei fochini? Bowlby si accorge chiaramente di una cosa: il legame di attaccamento nel neonato e successivamente nel bambino è inevitabile, ovvero la norma biologica del neonato prevede che questi si attacchi affettivamente ad un “caregiver” (in genere un adulto), per garantirsi la sopravvivenza. Conseguenza diretta di questa attività spontanea è che la qualità del legame di attaccamento madre-bambino, biologicamente il primo in ordine di tempo che il neonato sperimenta, influenza e caratterizza inevitabilmente tutto lo sviluppo successivo, con ripercussioni anche nella vita adulta.

Per chi fosse interessato ad approfondire, il testo di riferimento è la trilogia “Attaccamento e perdita”, pubblicata tra il 1969 e il 1980, un compendio fondamentale per comprendere appunto la relazione di attaccamento e perdita sviluppata dal neonato e successivamente dal bambino. La teoria si può riassumente in questi punti, osservabili nel percorso di crescita del neonato/bambino (fonte: wikipedia).

“Il termine “attaccamento” può essere interpretato in tre diversi modi:

a) comportamento di attaccamento;

b) sistema comportamentale di attaccamento;

c) legame d’affetto.

Il termine, in sé, ha un significato generale e rimanda alla condizione di “attaccamento relazionale” di un soggetto: il sostenere che un bambino “ha un attaccamento” vuol dire che egli avverte il bisogno di percepire la vicinanza ed il contatto fisico con una persona di riferimento, soprattutto in particolari situazioni.

Uno degli aspetti più importanti della teoria è il riconoscimento della “componente biologica del legame di attaccamento”. Il comportamento di attaccamento ha infatti come funzione quella di garantire la vicinanza e la “protezione” della figura di attaccamento. Tali legami svolgono quindi una funzione fondamentale per la sopravvivenza dell’individuo.

Secondo Bowlby, l’attaccamento è un qualcosa che, non essendo influenzabile da situazioni momentanee, perdura nel tempo dopo essersi strutturato nei primi mesi di vita intorno ad un’unica figura; è molto probabile che tale legame si instauri con la madre, dato che è la prima ad occuparsi del bambino, ma, come Bowlby ritiene, non sussiste nessun dato che avalli l’idea che un padre non possa diventare figura di attaccamento nel caso in cui sia lui a dispensare le cure al bambino.

La qualità dell’esperienza definisce la sicurezza d’attaccamento in base alla sensibilità e disponibilità del caregiver (madre) e quindi la formazione di modelli operativi interni (MOI), che andranno a definire i comportamenti relazionali futuri. Con la crescita, l’attaccamento iniziale che si viene a formare tramite la relazione materna primaria o con un “caregiver di riferimento”, si modifica e si estende ad altre figure, sia interne che esterne alla famiglia, fino a ridursi notevolmente: nell’adolescenza e nella fase adulta il soggetto avrà infatti maturato la capacità di separarsi dal caregiver primario, e di legarsi a nuove figure di attaccamento.”

Non stupisce quanto possano affascinare queste teorie, soprattutto perché ognuna di noi, inevitabilmente, comincia poi a riflettere sulla propria esperienza di attaccamento e sulla qualità dell’attaccamento dei propri figli.

Non serve tuttavia fustigarsi nel caso in cui si scopra di aver avuto un attaccamento problematico o pure che l’attaccamento del propri figli non sia ‘da manuale’: una caratteristica peculiare degli esseri umani è la capacità di coscienza di sé e di autoguarigione, uno strumento potente che ci è stato permesso dall’evoluzione.

Perché non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice.

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